Dopo un best seller come il Roland D-50, nel 1990 arrivò questo sintetizzatore denominato “Super L.A.”, ma nonostante alcune caratteristiche di rilievo non seppe far breccia nel cuore degli appassionati
In Roland nel 1990 si stava ancora brindando ai numeri di vendite del sintetizzatore D-50, comparso ben quattro anni prima, e dei modelli cosiddetti “scaled down” della stessa serie (D-20, D-10, ecc) compresi gli expander, perché incontravano i favori del pubblico (300.000 circa unità prodotte a quella data). Gli ottimi numeri di vendita di questa serie consentirono a Roland di investire ulteriormente per espandersi dentro e fuori dal Giappone. Proprio in quel periodo inaugurò due stabilimenti ad Hamamatsu, proseguì il suo inserimento in Europa, e dopo l’Italia stipulò joint venture in Spagna e Ungheria, infine fondò la sua divisione audio in America.
Roland D-70
Torniamo al D-70. Con quella denominazione aggiunta: “Super L.A. Synthesizer”, l’erede del D-50 prometteva meraviglie e gli appassionati non vedevano l’ora di provarlo. Chi scrive, leggendo le prime info, rimase positivamente impressionato dalla tastiera estesa a 76 tasti e la “mano tesa” di Roland all’uso di Card PCM. Chi aveva investito cifre considerevoli in questo supporto per i precedenti synth serie U (come il sottoscritto), non avrebbe gettato alle ortiche quel bel gruzzoletto.
Diamo però anche uno sguardo ai principali competitor di quel periodo: Korg già da due anni proponeva il suo best seller M1 e da poco più di un anno aveva rilasciato le workstation serie T. Yamaha da un anno aveva presentato la nuova ammiraglia SY77, dove la sintesi FM del leggendario DX7 “sposava” la AWM, la neonata tecnologia di campionamento studiata dal brand giapponese. Quando il D-70 finalmente arrivò nei negozi spiazzò gli appassionati, perché a differenza dei competitor rimaneva un sintetizzatore da performance sul palco, come il suo illustre progenitore.
Zero sequencer, ma una polifonia estesa fino a 30 note - merce rara in quel periodo – con cui però si rischiava ugualmente di “entrare in riserva” allestendo fino a quattro Tone in una Patch. Quelle 30 note dovevano bastare anche nel modo multitimbrico: cinque parti disponibili più una per un drumkit.
L’engine sonoro del D-70 fu equipaggiato con l’originale tecnologia DLM (acronimo di Differential Loop Modulation), per dare - volendo - un pizzico di variabilità in più ai suoi piccoli campioni immagazzinati in ROM. Peccato che – come accaduto spesso con Roland – questa tecnologia non ha avuto un seguito e nemmeno uno sviluppo, per cui quello che restituisce lo strumento attivando la DLM sono di frequente sonorità bizzarre o rumori poco utilizzabili in un contesto musicale.
L’utenza vide però il Roland D-70 più come un’evoluzione della serie U piuttosto che il seguito del D-50; pare che nelle serigrafie dei circuiti dei primi esemplari prodotti ci fosse la denominazione “U-50”. In pratica, un potente “ROMPler” piuttosto che un sintetizzatore creativo, e questo – per chi scrive – fu uno dei motivi dell’insuccesso commerciale. Ma “Sotto il cofano” questo strumento presentava una particolarità: i filtri TVF onboard furono implementati in seguito su un altro sintetizzatore storico di Roland: il JD-800.
Comprerei un Roland D-70 oggi?
Se dovessi ascoltare il cuore si, se bado alla ragione la risposta è no. Quando provai il D-70 ricordo che rimasi ore in negozio a suonare una patch di piano e archi per me incredibile come espressività, mettendo a dura prova udito e pazienza dell’addetto alle vendite. Il D-70 fu anche uno dei primi casi in cui mi imbattevo in un pannello con controlli per i vari Tone della Patch da utilizzare in tempo reale. Rispetto al D-50 era sparito il fader dell’Aftertouch, ma quel mini mixer a sinistra del display faceva dimenticare questa omissione. Inoltre, il set di controlli del Roland D-70 erano liberamente assegnabili e trasmettevano eventi MIDI verso l’esterno: se vi serve una MIDI Master Keyboard essenziale senza spendere troppo, questo è uno strumento da valutare.
Oltretutto, l’action delle tastiere Roland di quel periodo era notevole e con la 76 tasti semipesata montata sul D-70 si poteva suonare agevolmente un po’ di tutto. Fin qui il cuore, veniamo al “no” dettato dalla ragione partendo proprio dalla meccanica: Roland in quel periodo usava la “famigerata” colla rossa per fissare i pesi sotto il tasto: questa procedura ebbe inizio con l’U-20 e terminò con il sintetizzatore JD-800. Una scelta che ha reso traumatica l’esperienza di uso ai possessori di questi strumenti. Per questo motivo, su un D-70 di occasione va in primis verificata la qualità della tastiera, perché spesso alcuni proprietari hanno percorso la strada del “fai da te” per ripristinarla, con risultati a volte discutibili. Tasti e contattiere si trovano ancora, ma a prezzi non proprio abbordabili: occhio.
Il parco controlli e la sua leggerezza sono i punti di forza, ma se si volesse ancora utilizzare sul palco o in sala prove purtroppo le timbriche risentono dei 35 anni di età. Synth Pad, qualche Lead e alcune Patch di archi sono ancora utilizzabili, ma molti suoi contenuti sono stati replicati in seguito su altri sintetizzatori Roland (serie JV in primis). Sull’usato si trova a cifre piuttosto abbordabili, ma chi ha investito per ripristinare la meccanica – in genere – tende a ricaricare sul prezzo di vendita la riparazione. Se in buone condizioni, per un D-70 oggi personalmente non spenderei più di 250 euro.
Veniamo ora agli altri approfondimenti di questa puntata di Synth Legend.
Dal Blog di Giorgio Marinangeli
Il racconto di un fortunoso recupero! Oltre al consueto approfondimento tecnico, leggetevi come Giorgio ha scoperto l’esemplare di Roland D-70 proposto in questa puntata di Synth Legend, e di come sia intervenuto nel tentativo di recuperarlo. Purtroppo, anche Giorgio si è imbattuto nella “Famigerata” colla rossa... Ecco un estratto del suo articolo:
"La CPU principale, un Intel N80C196KB16, è connessa tramite bus alle varie periferiche e utilizza i convertitori A/D interni per leggere la posizione dei diversi controlli continui, come il pedale di espressione, il Pitch, l’Aftertouch e gli slider del pannello. Il controllo della pressione dei tasti del pannello e l’accensione dei LED sono gestiti da un Gate Array (IC2). I dati relativi ai suoni (Performance, Patch e Tone) sono memorizzati in RAM, alimentata da una batteria al litio interna per il backup. Per la generazione sonora, la CPU invia comandi all'integrato IC24, denominato PCM CUSTOM, che, insieme al suo "companion" IC25, gestisce l’accesso alle ROM contenenti i campioni PCM. Una volta letti, i PCM vengono processati tramite il TFV (IC22) e successivamente inviati alla sezione effetti (IC32), responsabile principalmente della generazione di effetti di chorus e riverbero. I dati digitali vengono poi convertiti in analogici tramite un DAC (IC1) e ulteriormente elaborati dal chip di effetti MPX (IC3), prima di essere inviati alle uscite audio."
CLICCA QUI per leggere l’articolo completo nel blog di Giorgio Marinangeli
Il video di Marcello Colò
Marcello in questi esempi video ha stratificato una serie di Patch del Roland D-70, per fornire un assaggio più ampio delle potenzialità sonore dello strumento. Buona visione!
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